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Il suono sensato

di Francesco Paniccia




La musica ha sempre necessitato, sin dalle sue origini, di interpreti capaci di evocarne il senso, comunicando all’ascoltatore i contenuti e la bellezza delle opere musicali. Tuttavia è solo in tempi più recenti che possiamo parlare di “arte dell’intepretazione”, poichè dalla musica antica sino all’epoca barocca, vi era una certa libertà da parte degli esecutori di intervenire negli sviluppi, anche melodici, della partitura. Essi, infatti, non dovevano misurarsi con dei materiali a carattere “definitivo”, bensì con dei canovacci che assumevano forma compiuta attraverso l’estro e l’abilità degli strumentisti.


L’origine dell’interpretazione “comunemente intesa” si colloca tra il Settecento e l’Ottocento, proprio con la fine di questa libertà esecutiva. Il “musicista creativo” inizia a concepire lo spartito come un’opera d'arte autonoma in cui ogni segno, nota, intenzione dinamica deve figurare sul pentagramma, e in cui l’inteprete viene chiamato ad aderire il più possibile al testo. Beethoven fu il primo grande compositore ad annotare tutto il necessario all’interpretazione delle proprie opere e con lui si sviluppa una concezione quasi "teologica" della musica, in cui nulla è derogato al caso o ai potenziali fraintendimenti di un interprete/improvvistatore investito di eccessive libertà.


Dal genio tedesco in poi gli autori saranno sempre meno a contatto con gli esecutori e la necessità di fornire dettagli esplicativi alle partiture sarà sempre più stringente. Ma tale nuovo approccio non semplificherà affatto la questione dell’interpretazione, poichè neanche le indicazioni grafiche più lineari si presteranno a letture univoche da parte degli interpreti, spesso storicamente e ideologicamente distanti rispetto all’epoca della composizione, e la questione dell’”interpretazione” si farà sempre più complessa ed affascinante.


Interpretare è intendere e spiegare nel suo vero significato (o in quello che si ritiene sia il significato giusto o più probabile) il pensiero d’uno scritto o d’un discorso il cui senso sia oscuro o dia luogo a dubbî (Voc. Treccani).”

Interpretare un brano musicale implica una profonda conoscenza della musica e della scrittura, come la capacità di entrare nella morfologia delle frasi, di individuarne antecedenze e conseguenze. Significa porsi in una relazione di ascolto e accoglienza rispetto a ciò che si va a suonare; interessarsi al compositore, al periodo storico in cui ha operato, ai suoi ideali, sentimenti e princìpi. Significa mettere da parte ogni autoreferenzialità per offrirsi onestamente al servizio della musica. L’approfondimento degli aspetti armonici, melodici e ritmici dello spartito, fornirà prezioso materiale all’esecutore per comprendere il più possibile le intenzioni dell’autore.


Ma l’opera musicale, quando concepita dall’estro di un genio, non è mai materiale “archeologico” cristallizzato in un epoca e un sentire determinati; è messaggio vivo e attuale che non può prescindere dal talento, le competenze, il vissuto e il sentire dell’artista che cerca di riportarla in vita. Col risultato che, pur in un rigoroso rispetto della scrittura, l’opera dovrà rinascere a nuova luce e vita nuova. Possiamo affermare che l’interpretazione della partitura è il frutto dell’intelligenza, della cultura, dell’esperienza e dello studio dell’esecutore, come il suono è strettamente legato alla sua sensibilità. Per suono non intendo la dinamica o le intenzioni date al discorso musicale ma quel particolare timbro che è proprio di “un esecutore” e di nessun altro.


Credo che non si possa scindere il concetto di ricerca interpretativa da quello di ricerca sul suono per la stessa ragione secondo cui ogni essere umano è chiamato a vivere un’esistenza che non può essere quella di altri. Se guardiamo ai compositori come “il mondo” di cui l’interprete è un “abitante”, non sarà difficile comprendere che per servire al meglio quel mondo, ogni abitante/interprete debba fare la sua parte con l’unicità che gli è data dalla propria natura. Il suono è legato all’“intimità” dell’uomo, al suo sentire profondo: è la sua anima musicale, il suo patto di sangue con la musica. Per trovarlo egli ha bisogno di silenzio, umiltà, ascolto di sé, voglia di affrontare la vita e cercare la verità.


Parliamo di prerogative che i tempi odierni tendono a mortificare in nome del presenzialismo sociale, del successo spicciolo, del denaro e dell’affermazione di un sapere unico associato alle emergenti logiche della contemporaneità e del mercato. Si sono così formati una moltitudine di interpreti, generalmente di bell’aspetto, capaci di muoversi agilmente tra le sonorità e i generi, perfetti in ogni dinamica e passaggio meccanico ma privi di fascino, spesso indistinguibili gli uni dagli altri e mai realmente “soddisfacenti”. Un interprete che si esprima col suono di un altro interprete o, peggio ancora, con un suono “standardizzato”, è come se si appropriasse di una vita non sua o cercasse una “comfort zone” su cui edificare il proprio castello personale; un essere vacuo che in nulla afferma e in nulla “serve” alla musica e i compositori che egli dice di amare.


Poiché le pagine di Bach, Mozart, Chopin, Debussy e Wagner risorgono immortali ed eterne solo quando a interpretarle sono esseri umani “autentici”, unici e imperfetti, che si assumono il rischio della verità, anche a costo di pagarne lo scotto. La verità in musica, cui si perviene solo attraverso duri sacrifici, non può che passare, di base, per l’originalità timbrica dell’esecutore, la personalità del suo suono; per quell’essere intrinsecamente “altro” tra gli altri. Tale affermazione è di per sé talmente scontata che a nessuno, nello scorso secolo, sarebbe venuto in mente di metterla in discussione. E dunque hanno potuto vedere la luce il suono di Rubinstein, Cortot e Menuhin; il suono di Richter, Rostropovich e Horowitz; il suono di Benedetti Michelangeli, Nikolayeva, Hess e Gazzelloni.


Timbri “senzienti” in grado di materializzare, ciascuno con le peculiarità della propria voce, la bellezza del grande repertorio; voci che nessuno avrebbe potuto fraintendere o confondere, cariche del pathos, la verità e il sudore dei loro creatori; voci, in definitiva, al mero servizio della musica. Eppure nessuno di questi strumentisti ha mai pensato il suono guardando alla novità o alla perfezione timbrica, bensì alle insistenti richieste dell’arte in relazione al proprio modo di stare al mondo. Così, mentre essi cercavano incessantemente il gesto tecnico che generasse la “grana” più giusta alle partiture che interpretavano, stavano di atto gettando le basi all’unicità del loro suono e della loro ricerca espressiva. Parliamo null’altro che di originalità, l’unica strada possibile, a mio avviso, per poter leggere e tramandare la grande lezione della musica “classica”; una musica in grado di parlare al futuro con gli occhi pieni di storia ed un linguaggio dalle parole universali.

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