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Elogio della grammatica

Aggiornamento: 21 giu 2020

di Walter Amirante



La parola "grammatica" è pericolosa, soprattutto fisicamente e per un motivo molto semplice: provoca irritazione e malessere psicologico soltanto a sentirla pronunciare. Ognuno ne ha una immagine tetra e arida. I ricordi infantili si fermano all'alfabeto; mentre le altre nozioni, una volta acquisite a forza, sono state, sì, assimilate, ma presto dimenticate e gettate nel più cupo abisso dell'inconscio.


La grammatica che abbiamo conosciuto è mera tecnicistica, una aberrazione della pedagogia. Inquietantissima è finanche la sua etimologia (o creduta tale): disciplina normativa, sistema, studio sincronico, diacronico, etc. Addirittura materia che insegna a scrivere, quindi a parlare correttamente. Salvo poi accennare, en passant e maldestramente, che anticamente "la parola fu usata con significato più ampio, in quanto comprendeva anche l’insegnamento di precetti retorici e di nozioni letterarie;"* - torneremo a breve su questo.


“E' altresì interessante l'etimo del verbo cogitare (pensare), che deriva da cogere, cioè raccogliere, riunire, riassumere; infatti la mente raccoglie, allo stesso tempo, piu' informazioni che deve poi saper scegliere (eligere)”

Una materia dunque noiosa, pedante, ma "necessaria", ci dicono. I luminari della lingua, i professori esperti del "complemento di privazione", insomma, quest'esercito di stipendiati a vita dallo Stato, ebbe l'ardire di sedere in cattedra, di improvvisarsi "maestro" in virtù di un concorso vinto a furia di imparare frasi a memoria - e le conseguenze atroci, dispiace dirlo, sono sotto gli occhi di tutti: analfabetismo di ritorno e funzionale, incapacità di comprendere ciò che si legge, etc. etc. Questo il frutto dei loro insegnamenti.


Certamente la causa non può essere ravvisabile soltanto nella mediocrità dei docenti, nelle pedagogie utilizzate. Probabilmente il guaio è a monte, è generale. Come si suol dire, si volle fare l'Italia senza gli italiani. La nostra identità, debole e a volte inesistente, non comprende punto la difesa e la cura della nostra lingua. La stessa Accademia della Crusca, avvilita dal barbarismo imperante (cioè dalla pratica dello pseudo-italiano e l'inglesismo d'accatto), non può che osservare il declino e prenderne atto.


Ma torniamo a bomba.


Per quale motivo gli antichi - nella nostra riflessione ci focalizzeremo sui Romani, dove risiedono le nostre radici culturali e linguistiche - parlavano non già di grammatica, ma di Arte grammatica? Effettivamente si rimane sorpresi. La cultura che aveva partorito Terenzio, Cesare, Cicerone, Catullo e Virgilio, aveva una concezione molto più ampia e ricca di questa disciplina.


Infatti nei Fragmenta Bobiensa, e in modo particolare nell'incipit dell'Arte grammatica, non troviamo soltanto gli argomenti che trattano le lettere, le sillabe, l'ortografia, le anomalie, le clausole, le regole basiche; ma vengono approfonditi anche gli elementi di metrica, di etimologia, di storia della letteratura e dei poeti (Virgilio aveva un posto privilegiato).


Una caratteristica cruciale di queste grammatiche antiche è poi la chiarezza delle spiegazioni e il "tatto pedagogico" degli autori, che, alle prime difficoltà, cercano di rassicurare il lettore - si veda Palèmone quando, trattando dei superlativi e di alcune eccezioni, nella sua Ars afferma: "sed haec pauca nos turbare non debent."**


Sappiamo inoltre che l'Arte grammatica era in simbiosi con la Retorica, che non era però soltanto "tecnica", o una collezione di "precetti" o di mere strategie per impressionare il pubblico; era, sì, un metodo organico e lineare di costruzione del discorso, ma allo stesso tempo era educazione e ricerca dell'eleganza: la parola pura e schietta doveva infatti contraddistinguere il discorso. Così Cornificio: "Latinitas est quae sermonem purum conservat ab omni vitio remotum."***


Parimenti Arte grammatica e Retorica appartenevano ad una visione ancora più ampia: la Oratoria, che per i Romani era soprattutto un modo di vivere e di stare al mondo: un'idea cioè di umanità all'insegna della cultura, del bonus inteso come alta e irreprensibile moralità. Un modello, questo, che mira non solo alla forma, ma alla sostanza delle cose: rem tene, verba sequentur - domina l'argomento, le parole verranno. Ovviamente Retorica e Oratoria non vengono più insegnate a scuola.


Tuttavia l'aspetto forse più avvincente dell'Arte grammatica è rappresentato dal ramo dell'etimologia; e qui il materiale a disposizione è enorme. Nel De lingua latina - 6 libri su 25 pervenutici, di Marco Terenzio Varrone, il grande erudito dell'epoca Repubblicana, e, per intenderci, dieci volte Umberto Eco - siamo a contatto con una vera e propria miniera filologica dove vengono indagate le origini delle parole.


Da dove viene per es. la parola "cane"? Varrone parte anzi tutto dall'etimo del diminutivo catulus (cagnolino), cosiddetto per la sua sagacia e spiritosaggine; Catulus deriverebbe però anche dal nome Cato, Catonis (cognome famoso della gens Porcia). Mentre "canis" deriverebbe dal fatto che il cane, quando sta di guardia la notte, e quando va' a caccia, o dà un segnale con i denti, oppure annuncia (canere) con la sua voce l'eventuale pericolo.


E' altresì interessante l'etimo del verbo cogitare (pensare), che deriva da cogere, cioè raccogliere, riunire, riassumere; infatti la mente raccoglie, allo stesso tempo, piu' informazioni che deve poi saper scegliere (eligere). E ancora, l'imperatore non fa' l'impero, né lo guida: ma, letteralmente, lo porta su di sé. Infine - potremmo andare avanti per anni - il verbo facere (fare) deriva da facies (faccia), poiché fare un qualcosa, o una attività, significa sempre in qualche modo metterci la faccia ("qui rei quam facit imponit faciem").


Ebbene, questo significava - e forse dovrebbe ancora significare - insegnare l'Arte della grammatica. Non una serie di aride e ostiche regole; non una disciplina ridotta a tecnicismo ad uso d'insegnanti che, per necessità, cercano di arrancare la esistenza; bensì uno "spazio" che contiene in sé l'essenza stessa della lingua, un'Arte, appunto, che rende l'individuo capace di riflettere compiutamente sulle cose. Invero la grammatica è un campo aperto che può indicarci addirittura un percorso di natura "morale"; tutto ciò non potrà, a nostro avviso, che guidarlo alla riscoperta delle proprie origini. Chissà, dunque, che non avesse proprio ragione Giuseppe Verdi, quando, nel lontano 1871, scriveva: "Tornate all'antico, e sarà un progresso."










*Definizione della Treccani;

**Quintus Remmius Palaemon, Ars;

***Cornificio, Rethorica ad Herennium;


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